Phnom Penh capitale della Cambodia. Fantastici trentuno gradi e un
cielo non troppo chiaro.
Una moltitudine di volti che sorridono in mezzo ad una povertà che già
dai primi minuti ti rendi conto essere ad un livello che non possiamo
comprendere. Una povertà nemmeno provata a nascondere in mezzo ad una città che
è stata capoluogo dell’inferno alla fine degli anni ’70. Eppure la città mostra
segni di ripresa finalmente, qualche piccolo grattacielo in costruzione,
qualche SUV sfavillante che ti fa vergognare anche per il proprietario. E’
difficile capire come si possa girare in mezzo a questa povertà, a questi
bambini con sguardi che ricordano l’africa o quanto meno lo stesso dolore
portato da povertà e sangue, bagnati dal lusso e dalla sfacciataggine di non regalare
loro un quarto di dollaro. Phnom Penh o meglio loro, i bambini, questi bambini,
sono disarmanti nella loro allegria anche quando sono lì nello sporco, nel
nulla di un baratro che non comprenderanno per anni. Si fermano a giocare con
te senza chiederti nulla, anche perché potreste dare qualsiasi cosa, la maggior
parte di loro no si rende conto del valore delle singole banconote, loro
imitano i grandi.
C’è invece quello con la macchina con il quale ricavo di vendita si
potrebbe sfamare parte della città.
Ora non sto a criticare soldi, bella vita, belle macchine. Critico il momento
storico, il contesto. Sei in una città occidentale, povertà e opulenza sono
ovunque, hai le possibilità economiche, non sono il buonista che ti critica per
una macchina da centomila euro. Mi sento toccato, mi fa sentire male come
essere umano, vedere però la macchina da centomila euro in mezzo alla povertà
profonda. In questi casi loro quasi non ti cercano più, non vengono a giocare e
spesso nemmeno ad elemosinare. Ti guardano in silenzio, s’appoggiano al vetro
per vedere il loro fratello cambogiano guardarli con sdegno, con schifo o peggio,
con noia e superficialità.
Phnom Penh non è bella. E’ una città con un animo profondo che forse
non ha nemmeno più un orgoglio per quanto è stata defraudata e spezzata nelle
sue cellule. L’anima però è lì, immutabile di un popolo che sa cos’è l’inferno
per empirismo e i suoi figli crescono nell’ignoranza più totale, ma con una
laurea nell’argomento citato, il dolore.
Noi occidentali che a volte per vita cerchiamo di fare finta di niente
o quanto meno di distaccarci, potremo non comprendere cosa hanno fatto i pochi
anni di quel bastardo di Pol Pot a questa gente. Informatevi, fate un giro in
rete se vi è sfuggito.
I numeri parlano di duemilioniemezzo di morti in circa quattro anni,
un carcere, tra i tanti, l’S21 governato e “inventato” da “Deutch”, uno dei
bracci sinistri di Pol Pot, che somma, si fa sintesi massima dei metodi di
tortura asiatici che a loro volta hanno l’eredità di quelli occidentali passati
per la seconda guerra mondiale. Il destino, si sa non manca d’ironia, ha
portato la scelta di creare il carcere in una ex liceo: Dove si imparava a vivere
e crescere, si è imparato a uralre e morire.
Visitare l’S21 d’impatto è stato meno traumatico
dell’attesa, probabilmente, in parte si è abituati oggi, sottolineo purtroppo,
a concepire, almeno nell’immaginario, ogni tipo di dolore. In parte il profondo
rispetto che porti in un posto del genere, come in altri nel mondo, può in quel
momento portarti ad una paralisi delle emozioni. Ero come in uno stato di
semplice studio, vedevo, mi impressionavo e immagazzinavo. Scattando un
reportage di cui sono stato davvero contento e che vorrei non aver potuto
scattare, nel senso che vorrei non ci fosse mai stato niente del genere. E’
dopo, quando esci e poi passi la notte che i pensieri, i collegamenti, la tua
critica moltiplica e cresce e si fa profonda. E’ la consapevolezza che ti
cambia, l’averlo visto, l’esserci stato, l’aver respirato quell’aria che non sa di morte, sa semplicemente
di nulla, di vuoto, è stato l’innesco. E’ un pensiero che non ti abbandona per
qualche giorno.
Phnom Penh non è
contraddittoria, ma profondamente lineare, quelle poche macchine superlussuose
non sono il contrasto della città, che non vive di tali dinamiche, sono il
normale sviluppo dell’azione, è la natura umana che è tale. Il suo dolore, la
sua passione in tal significato, è lineare, è coerente. La ripresa è partita,
ma il dolore non è ancora passato.
Ho avuto una splendida trattativa con una bambina che vendeva
braccialetti, alle nove e mezza di sera e che alle quattro avevo visto a cinque
chilometri da lì. Non volendo comprare braccialetti le ho dato un misero mezzo
dollaro. Lei ringrazia felice e rimane li a chiacchierare, allora decido di
darle un altro dollaro e comprare un braccialetto, ma cerco di fare l’affare….
Due dollari per DUE braccialetti, un genio della trattativa. Cerco di mettere
il tutto come se fosse lei un mercante adulto, lei si atteggia ed è contentissima
di credere di essere una grande commerciante che ha convinto un turista a
comprarle due braccialetti per due dollari, facendo credere a quest’ultimo di
aver fatto un affare. E’ stato bellissimo vedere lei, così contenta. Lei non
aveva cambio e io solo un pezzo da cinque dollari. Allora la vedi che si
dispera ché non ha cambio! Non ti preoccupare le faccio, tra l’altro la bambina
parlava un ottimo inglese, ti propongo un affare, le faccio porgendole la mano
come per stringere un accordo che non avrebbe rifiutata. Facciamo cinque
dollari per tre braccialetti! Lei senza sorridere, seria, ma con gli occhi che
brillavano, mi dice decisa: “Deal!”. Fiera dell’affare concluso. Volevo morire,
ho avuto una cosa stupenda, uno spettacolo per solo cinque dollari! Lei era
favolosa e ha scelto uno dei tre braccialetti, messo al polso. Dopo mi son sentito in colpa per averle
dato solo cinque dollari. E’ dura non dare una mano anche piccola a questi
bambini, come fai con lei o con un altro che mentre sei seduto su una panchina
viene a giocare con te e si ruzzola in terra già lurido e tu ti fermi a
guardarlo per capire come fa ad essere così felice se dorme sotto i cartoni,
mangia roba scaduta forse una volta al giorno, si lava nel fiume una volta a
settimana e non ha playstation, iphone, accesso internet, vestiti firmati, o
comunque nemmeno un paio di scarpe rotte. E’ dura voltasi e far finta di
niente. Qui molta gente si è fermata e ha iniziato ad aiutare, magari anche sol
regalando lezioni d’inglese ai bambini…
Il benessere è un cane che si morde la coda messo in condizioni di
chiusura mentale. Basterebbe la conoscenza. A volte basterebbe un viaggio
consapevole, anche breve, in luogo del viaggio da turista festaiolo e
puttaniere.
Il lavoro minorile è norma. Ovunque, non quello da fabbrica, quello da
strada, vendono di tutto, dalle pannocchie ai braccialetti. Servono ai
ristoranti, spesso. Sempre più sporchi. Imparano a vivere così.
C’è anche qualcosa che ricorda anche il Vietnam in questa città, in
alcuni colori e nell’architettura vagamente francese, sicuramente niente nelle
persone, se non il fatto che anche qui c’è qualcuno che si copre completamente
dal sole. I driver dei tuk tuk, hanno un taglio thailandese come approccio, ma
poi quando ci parli, se ti fermi sono completamente differenti, infatti qui
capita spesso che il tuo tuk tuk diventi l’unico, quello di fiducia.
Grazie Phnom Penh, per esserti mostrata a me come fai con tutti quelli
che non si vergognano di guardarti. Se si vuole conoscere il mondo, questo è uno
dei posti da capire.
Nessun commento:
Posta un commento