mercoledì 25 gennaio 2012

I bimbi di Phnom Penh


Phnom Penh capitale della Cambodia. Fantastici trentuno gradi e un cielo non troppo chiaro.
Una moltitudine di volti che sorridono in mezzo ad una povertà che già dai primi minuti ti rendi conto essere ad un livello che non possiamo comprendere. Una povertà nemmeno provata a nascondere in mezzo ad una città che è stata capoluogo dell’inferno alla fine degli anni ’70. Eppure la città mostra segni di ripresa finalmente, qualche piccolo grattacielo in costruzione, qualche SUV sfavillante che ti fa vergognare anche per il proprietario. E’ difficile capire come si possa girare in mezzo a questa povertà, a questi bambini con sguardi che ricordano l’africa o quanto meno lo stesso dolore portato da povertà e sangue, bagnati dal lusso e dalla sfacciataggine di non regalare loro un quarto di dollaro. Phnom Penh o meglio loro, i bambini, questi bambini, sono disarmanti nella loro allegria anche quando sono lì nello sporco, nel nulla di un baratro che non comprenderanno per anni. Si fermano a giocare con te senza chiederti nulla, anche perché potreste dare qualsiasi cosa, la maggior parte di loro no si rende conto del valore delle singole banconote, loro imitano i grandi.
C’è invece quello con la macchina con il quale ricavo di vendita si potrebbe sfamare parte della  città. Ora non sto a criticare soldi, bella vita, belle macchine. Critico il momento storico, il contesto. Sei in una città occidentale, povertà e opulenza sono ovunque, hai le possibilità economiche, non sono il buonista che ti critica per una macchina da centomila euro. Mi sento toccato, mi fa sentire male come essere umano, vedere però la macchina da centomila euro in mezzo alla povertà profonda. In questi casi loro quasi non ti cercano più, non vengono a giocare e spesso nemmeno ad elemosinare. Ti guardano in silenzio, s’appoggiano al vetro per vedere il loro fratello cambogiano guardarli con sdegno, con schifo o peggio, con noia e superficialità.
Phnom Penh non è bella. E’ una città con un animo profondo che forse non ha nemmeno più un orgoglio per quanto è stata defraudata e spezzata nelle sue cellule. L’anima però è lì, immutabile di un popolo che sa cos’è l’inferno per empirismo e i suoi figli crescono nell’ignoranza più totale, ma con una laurea nell’argomento citato, il dolore.
Noi occidentali che a volte per vita cerchiamo di fare finta di niente o quanto meno di distaccarci, potremo non comprendere cosa hanno fatto i pochi anni di quel bastardo di Pol Pot a questa gente. Informatevi, fate un giro in rete se vi è sfuggito.
I numeri parlano di duemilioniemezzo di morti in circa quattro anni, un carcere, tra i tanti, l’S21 governato e “inventato” da “Deutch”, uno dei bracci sinistri di Pol Pot, che somma, si fa sintesi massima dei metodi di tortura asiatici che a loro volta hanno l’eredità di quelli occidentali passati per la seconda guerra mondiale. Il destino, si sa non manca d’ironia, ha portato la scelta di creare il carcere in una ex liceo: Dove si imparava a vivere e crescere, si è imparato a uralre e morire.
Visitare l’S21 d’impatto è stato meno traumatico dell’attesa, probabilmente, in parte si è abituati oggi, sottolineo purtroppo, a concepire, almeno nell’immaginario, ogni tipo di dolore. In parte il profondo rispetto che porti in un posto del genere, come in altri nel mondo, può in quel momento portarti ad una paralisi delle emozioni. Ero come in uno stato di semplice studio, vedevo, mi impressionavo e immagazzinavo. Scattando un reportage di cui sono stato davvero contento e che vorrei non aver potuto scattare, nel senso che vorrei non ci fosse mai stato niente del genere. E’ dopo, quando esci e poi passi la notte che i pensieri, i collegamenti, la tua critica moltiplica e cresce e si fa profonda. E’ la consapevolezza che ti cambia, l’averlo visto, l’esserci stato, l’aver respirato quell’aria  che non sa di morte, sa semplicemente di nulla, di vuoto, è stato l’innesco. E’ un pensiero che non ti abbandona per qualche giorno.
Phnom Penh non  è contraddittoria, ma profondamente lineare, quelle poche macchine superlussuose non sono il contrasto della città, che non vive di tali dinamiche, sono il normale sviluppo dell’azione, è la natura umana che è tale. Il suo dolore, la sua passione in tal significato, è lineare, è coerente. La ripresa è partita, ma il dolore non è ancora passato.
Ho avuto una splendida trattativa con una bambina che vendeva braccialetti, alle nove e mezza di sera e che alle quattro avevo visto a cinque chilometri da lì. Non volendo comprare braccialetti le ho dato un misero mezzo dollaro. Lei ringrazia felice e rimane li a chiacchierare, allora decido di darle un altro dollaro e comprare un braccialetto, ma cerco di fare l’affare…. Due dollari per DUE braccialetti, un genio della trattativa. Cerco di mettere il tutto come se fosse lei un mercante adulto, lei si atteggia ed è contentissima di credere di essere una grande commerciante che ha convinto un turista a comprarle due braccialetti per due dollari, facendo credere a quest’ultimo di aver fatto un affare. E’ stato bellissimo vedere lei, così contenta. Lei non aveva cambio e io solo un pezzo da cinque dollari. Allora la vedi che si dispera ché non ha cambio! Non ti preoccupare le faccio, tra l’altro la bambina parlava un ottimo inglese, ti propongo un affare, le faccio porgendole la mano come per stringere un accordo che non avrebbe rifiutata. Facciamo cinque dollari per tre braccialetti! Lei senza sorridere, seria, ma con gli occhi che brillavano, mi dice decisa: “Deal!”. Fiera dell’affare concluso. Volevo morire, ho avuto una cosa stupenda, uno spettacolo per solo cinque dollari! Lei era favolosa e ha scelto uno dei tre braccialetti, messo al polso.  Dopo mi son sentito in colpa per averle dato solo cinque dollari. E’ dura non dare una mano anche piccola a questi bambini, come fai con lei o con un altro che mentre sei seduto su una panchina viene a giocare con te e si ruzzola in terra già lurido e tu ti fermi a guardarlo per capire come fa ad essere così felice se dorme sotto i cartoni, mangia roba scaduta forse una volta al giorno, si lava nel fiume una volta a settimana e non ha playstation, iphone, accesso internet, vestiti firmati, o comunque nemmeno un paio di scarpe rotte. E’ dura voltasi e far finta di niente. Qui molta gente si è fermata e ha iniziato ad aiutare, magari anche sol regalando lezioni d’inglese ai bambini…
Il benessere è un cane che si morde la coda messo in condizioni di chiusura mentale. Basterebbe la conoscenza. A volte basterebbe un viaggio consapevole, anche breve, in luogo del viaggio da turista festaiolo e puttaniere.
Il lavoro minorile è norma. Ovunque, non quello da fabbrica, quello da strada, vendono di tutto, dalle pannocchie ai braccialetti. Servono ai ristoranti, spesso. Sempre più sporchi. Imparano a vivere così.
C’è anche qualcosa che ricorda anche il Vietnam in questa città, in alcuni colori e nell’architettura vagamente francese, sicuramente niente nelle persone, se non il fatto che anche qui c’è qualcuno che si copre completamente dal sole. I driver dei tuk tuk, hanno un taglio thailandese come approccio, ma poi quando ci parli, se ti fermi sono completamente differenti, infatti qui capita spesso che il tuo tuk tuk diventi l’unico, quello di fiducia.
Grazie Phnom Penh, per esserti mostrata a me come fai con tutti quelli che non si vergognano di guardarti. Se si vuole conoscere il mondo, questo è uno dei posti da capire.

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